Uno sguardo lucido sulle dinamiche mediorientali e un’attenta analisi di quanto accaduto il 13 novembre con gli attentati di Parigi ma anche di quale sia la genesi dell’Isis, del terrorismo internazionale e i possibili scenari futuri.
Parliamo del punto di vista di Marina Calculli, ricercatrice alla George Washington University a Washington, che ci aiuta a leggere meglio la mole di informazioni e dibattiti conseguenti ai tragici fatti della capitale francese. In questa intervista ci accompagna nell’avere un quadro certamente più chiaro del panorama internazionale relativo al mondo islamico e non solo. Di sicuro ci offre un punto di vista qualificato sull’argomento.
Partirei dall’attualità: come valuta l’abbattimento dell’areo russo da parte della Turchia? La soluzione per combattere l’Isis è lontana?
«Non c’è un fronte unico contro il terrorismo e non c’è mai stato. Ci sono dei blocchi ben distinti: uno costituito da Russia e Iran che sostengono il regime di Bashar al-Assad e l’altro guidato dagli Stati Uniti che include altri attori entrati in questa alleanza in modo ambiguo. Tra questi c’è sicuramente la Turchia che, nel perseguire i suoi interessi in Siria, ha lasciato passare sul suo territorio, per almeno 2 anni, i jihadisti che arrivavano dall’Asia centrale e dall’Europa e intende ora ostacolare l’obiettivo della Russia di bombardare i ribelli dell’asse contro Assad. È chiaramente un atto di guerra che mostra molto chiaramente l’opposizione della Turchia al disegno di Putin, ovvero quello di restaurare totalmente il potere di Assad eliminando tutte le frange ribelli di qualsiasi tipo e genere, e soprattutto i ribelli non legati agli islamisti radicali. All’indomani degli attentati di Parigi la Russia aveva tentato di ripristinare le relazioni con l’Occidente, ma l’abbattimento del jet russo da parte della Turchia ha rimarcato chiaramente l’esistenza dei due blocchi di alleanze. Paradossalmente la Francia, che era stata una delle potenze del fronte duro contro Asad, è il paese occidentale che adesso ha una posizione più flessibile e più vicina alla Russia».
Ed è proprio il discorso relativo alla figura di Assad, che si intreccia con quello sull’Isis, a essere fondamentale in quell’area?
«Assolutamente, c’è una schizofrenia soprattutto nel dibattito intellettuale perché si pone la questione in termini binari: o c’è l’Isis e i fondamentalisti islamici oppure c’è Assad che viene dipinto come il baluardo della laicità e il protettore dei cristiani. Questo ovviamente non tiene conto della sua brutalità e della responsabilità di questo regime nell’aver creato il terrorismo e radicalizzato parte della società o di aver utilizzato anche in passato gruppi terroristici islamisti. Ma questo discorso può essere fatto anche per altri regimi, come quello egiziano o quello dell’Arabia Saudita, che in realtà si fonda sulla stessa ideologia radicale dello Stato Islamico ma che ha avuto molti problemi di dissidenza interna islamista. L’autoritarismo e l’islamismo radicale violento sono legati a doppio filo: soprattutto a partire dagli anni ’70 i regimi hanno fatto tabula rasa di ogni forma di dissidenza interna, organizzata in varie forme: c’era la dissidenza liberale, socialista, comunista, c’era anche una dissidenza religiosa, ma non si trattava di gruppi islamisti radicali. La radicalizzazione è nata proprio nelle carceri e nella repressione. Tutti i dissidenti, a partire da quel momento, sono finiti nelle carceri dei Paesi arabi e sono stati tolti dalla superficie generando un annichilimento delle società, del dibattito e del pluralismo politico. Il partito di Assad in Siria, l’analogo Ba’th iracheno, il partito nazional- popolare di Mubarak in Egitto erano laici e secolari ma in realtà erano di stampo autitario, quando non totalitario. Prima del 2011 in Siria era impossibile fondare un partito politico e soltanto pochi partiti erano legali secondo la Costituzione. La condizione per questi era che l’ideologia fosse armonica con l’ideologia del Ba’th. Così il regime controllava la politica e la società. La repressione nelle carceri ha radicalizzato la dissidenza. L’idea originaria era quella di restituire all’Islam ciò che era stato tolto ai regimi autoritari con una guerra interna. Poi alcune di queste formazioni hanno cominciato ad usare la violenza: per esempio la al Gama’a Islamiya in Egitto. Negli anni ’90 è poi nato Al Qaeda e adesso lo Stato Islamico che in realtà è una propaggine di Al Qaeda. Possiamo annientarli militarmente e mantenere relazioni ottime con Al-Sisi che continua a mandare in carcere tutti i dissidenti, gli islamisti e i non-islamisti. Ma è un circolo vizioso: più si alimenta la repressione, più cresce il radicalismo».
A proposito di questo, quanto pesa questo intreccio di interessi economici tra l’Occidente e Paesi come Kuwait e Qatar che finanzierebbero l’Isis? Mi spiego meglio: ci dicono di dover combattere qualcosa che in qualche modo finanziamo indirettamente?
«Certo, noi finanziamo indirettamente l’Isis. Questo non vuol dire che ci sia stato un interesse specifico nel finanziare l’Isis ma alcuni attori economici hanno venduto armi e munizioni a paesi che poi le hanno passate all’Isis. E anche quando questi legami vengono riconosciuti, i decisori politici non sono in grado di comprenderne la pericolosità o bloccare i contratti privati».
Qualche esempio concreto?
«Le aziende che producono armamenti e sistemi di sicurezza in Europa – compresa l’italiana Finmeccanica – stanno facendo grandi affari con i Paesi del Golfo: questi regimi stanno per esempio bombardando in maniera brutale e di dubbia legalità lo Yemen per frenare l’avanzata degli Houthi, una milizia locale che adesso è sostenuta dall’Iran. In questa guerra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti stanno distruggendo lo Yemen, anche e soprattutto i luoghi dove gli Houthi non sono presenti. Il risultato è che dopo quasi un anno di bombardamenti c’è un solo attore che si sta davvero espandendo: Al Qaeda. Si sta distruggendo del tutto la struttura sociale dello Yemen, si sta rafforzando al-Qaeda e altri potentati di stampo mafioso che cercheranno di prendere il controllo di un territorio dove non c’è1 – e non può esserci – governance. In Iraq è successo lo stesso. Già dal 2003 le monarchie del Golfo hanno fornito armi e finanziamenti ai gruppi sunniti di vario tipo che combattevano contro le milizie sciite finanziate dall’Iran. Iran e Paesi del Golfo sono allo stesso modo responsabili di aver frammentato le società e aver distrutto alcuni stati. Però non possiamo negare che i nostri legami commerciali con i regimi autoritari abbiano indirettamente alimentato e nutrito l’islamismo radicale. C’è anche da dire che il commercio di armi, prodotte prevalentemente in Occidente, è cresciuto esponenzialmente in questi ultimi 4 anni, da quando è cominciata la guerra in Siria. La Guerra è anche un business e quando questo business diventa troppo grande, finisce per rappresentare un fattore di ostacolo per la pace».
C’è una relazione secondo lei tra gli sbarchi di immigrati e profughi e il terrorismo?
«Che ci possano essere alcuni individui che a un certo punto finiscano in cellule jihadiste non si può escludere a priori. Ma che ci sia un legame tra terrorismo e rifugiati – questa è la parola giusta, non migranti – è assurdo, così come è assurdo che si criminalizzi l’intera comunità dei profughi. Chi scappa dalla Siria oggi scappa sia da Assad che dallo Stato Islamico. Perchè non vanno nelle terre del Califfato, ce lo chiediamo? Perché lo considerano un incubo esattamente come ce lo figuriamo noi. Dall’altro lato, coloro che scappano in Europa sono un incubo per l’ISIS, perché preferiscono l’Europa al Califfato: questa è la cifra del loro fallimento. L’Isis poi non ha bisogno di finti profughi che comunque rischierebbero di affondare e morire in mare per compiere attentati in Europa. Sarebbe controproducente anche in termini tattici e strategici ».
Quanto si sbaglia nell’identificare l’Isis con tutti i musulmani, anche quelli che vivono in Italia?
«C’è una domanda che viene ripetuta fino alla nausea in questi giorni: “è possibile un Islam moderato e una distinzione tra Islam moderato e Islam radicale?” Trovo la domanda francamente demenziale . Incriminare l’Islam è certo più semplice che cercare di comprendere come l’Islam venga utilizzato politicamente. L’Islam è strumentalizzato da Al Baghdadi, che ha un preciso progetto di potere, quello di consolidare un potentato nella fascia di territorio tra l’Iraq e la Siria. Ma l’Islam viene utilizzato e strumentalizzato anche da altri poteri nella regione per mobilitare combattenti o creare conflitti sociali per risolvere questioni che hanno in realtà una natura strategica e geopolitica: è la guerra fredda tra Iran e Arabia Saudita che ha dato origine a questa faida tra Sunniti e Sciiti. Però, se si parla con la maggior parte delle persone tra venti e trent’anni in Medio Oriente c’è una forte memoria di quando, dopo il 2003, è nata e ha cominciato a diffondersi questa diffidenza e questa opposizione tra sunniti e sciiti. Non comprendiamo come le identità siano facilmente manipolabili e attribuiamo a sentimenti atavici il motive di una guerra che in realtà è molto recente, perchè recentemente sono intervenuti moventi economici e politici per farla: ovvero il crescere della opposizione geostrategica tra Iran e paesi del Golfo.. Ma noi ci accaniamo contro i musulmani chiedendo di dimostrarci che siano davvero moderati. Loro vanno in piazza ma non ci basta mai. Perchè invece non chiediamo conto delle responsabilità ai nostri governanti che volano in Egitto, in Arabia Saudita a stringere la mano e a firmare contratti con regimi assassini e non chiediamo conto loro di queste “liaisons dangereuses”? Guardiamo attoniti un mondo arabo che sta letteralmente crollando a pezzi e ci chiediamo come mai non sono diventati democratici ma diventano sempre più radicali? E io mi chiedo come può diventare democratica una società in cui se si protesta per la libertà si viene torturati, incarcerati o uccisi senza ricevere giustizia, dove oltre metà della popolazione vive in una condizione da rifugiato e non ha più una vita decente. I nostri governanti che continuano a dire di voler promuovere la democrazia continuano però nei fatti a sostenere esattamente quei poteri che uccidono, torturano e riducono le società a masse di rifugiati. Noi invece di schierarci dalla parte dei democratici, continuiamo a finanziare chi ha il potere in quei luoghi e ha paura della democrazia più di qualsiasi altra cosa e poi ci chiediamo: come mai non sono democratici?».
Il giorno prima degli attentati di Parigi, c’è stato un attentato a Beirut con 40 morti e oltre cento feriti sempre per mano dell’Isis, ma qui quasi non si è saputo. Quali sono le differenze? È colpa anche degli organi di informazione il non far passare certe notizie?
«Da una parte Parigi ci tocca più da vicino; dall’altra non si vuole capire che l’Isis è un progetto politico che colpisce tutti coloro che sono percepiti, nella sua sinistra prospettiva, come nemici: tra questi, ci sono gli sciiti. Non è in altri termini solo una questione di odio anti-occidentale. Essendo un progetto politico, l’Isis cerca di annientare e di distruggere tutti quelli che pongono ostacoli al raggiungimento del progetto ‘Stato Islamico’. Uno di questi è Hezbollah. La Russia, che è stata attaccata, rappresenta un nemico dell’Isis così come la Francia. L’Isis va a colpire dove pensa di poter ricavarne un vantaggio politico».
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